Alessio Barchitta      |      Artwork

Panacea

2023

“Ce ne siamo accorti da un pezzo: il magazzino dei materiali accumulati dall’umanità […] non si riesce più a tenerlo in ordine.
I metodi continuamente rettificati e aggiornati […] hanno patito troppe crepe e falle per pretendere di tenere ancora tutto insieme come se niente fosse. L’urto che li sfascia […] si chiama ancora Uomo, ma quanto mutato da quello che credeva d’essere […]”.1

Queste alcune delle parole contenute ne “Lo sguardo dell’archeologo” breve testo preparatorio di Italo Calvino, da sottoporre in discussione del 1972, quando, all’epoca, progettava una rivista mai realizzata insieme a Gianni Celati, Guido Neri, Carlo Ginzburg e altri amici. Questa affermazione così forte, risuona ancora oggi come un monito; poche e semplici parole da pronunciare a gran voce contro le catalogazioni finite, contro la ricerca dell’immutabilità, a favore dell’adozione di un pensiero altro, che parla di diversità, di frammenti, di mobilità, in una continua constatazione del fallimento della volontà dell’uomo di contenere tutto entro griglie di significati predefiniti.

Quello in cui ci troviamo a navigare oggi è forse un mare di condizioni e circostanze che ci impongono di mutare velocemente le nostre prospettive e direzioni, rendendo sempre più significative le nostre capacità di adattamento.
Alessio Barchitta (Barcellona Pozzo di Gotto, ME, 1991), in questo senso, è di certo un viaggiatore, legato ad un perpetuo movimento elastico tra il suo luogo d’origine, la Sicilia, e altri territori. Nei suoi lavori infatti il legame con il concetto di casa – allargato e collettivo – ritorna sempre, tra materiali, odori e processi.

È proprio il processo che, nel progetto personale e site specific Panacea, presentato presso il Museo dell’Antica Farmacia Cartia a Scicli, restituisce la chiave di lettura fondamentale circa la pratica di Barchitta, artista radicante e al contempo vagabondo, che sceglie di lasciarsi attraversare dalla cultura popolare, dai luoghi, dal paesaggio, per riconsegnarci una visione stratificata fatta di esperienze, dialoghi e interazioni con elementi vegetali. Panacea si interseca con tutto questo, proponendo una riflessione sui tredici anni trascorsi da Barchitta lontano da casa; tredici calchi della sua gamba destra in argilla cruda, realizzati a Milano e spediti via corriere a Barcellona Pozzo di Gotto; tredici pacchi colmi di frammenti e fratture da ricostruire; tredici nuove geografie, tracciate attraverso percorsi lontani e ricerche in loco di piante dalle proprietà magiche o curative, per disegnare, non solo a livello formale, le cartografie del mobile divenire.

– Alloro, foglie di Arancio Amaro, Artemisia, foglie di Cappero, Elicriso, Eucalipto, Felce Maschio, Gramigna, Lichene Islandico, Malva, Nepeta, Salvia, Santoreggia Montana –

Sono le tredici piante che Barchitta ha raccolto durante gli scorsi tre mesi, in un avanzare perpetuo tra campagne, fiumi e luoghi liminali alle città, in quel “Terzo Paesaggio”2 di possibilità tanto amato da Gilles Clément, in quello spazio non regolamentato dove tutto è ancora possibile e dove le piante spontanee e le vagabonde trovano dimora.

Selezionate per le proprietà curative apprese attraverso libri o nella maggior parte dei casi attraverso il sapere orale tramandato nei paesi, queste piante sono state essiccate e tritate, per farsi letto erboso, sottobosco silente della Farmacia Cartia in cui è inserita l’installazione, e per farsi stucco, balsamo curativo per riunire e lenire le fratture della creta. Il percorso avviene ponendo attenzione anche alle specificità della stagione, in un arco temporale momentaneo, che permette la ricerca e la conseguente raccolta delle piante scelte dall’artista.

Questo archivio, che si combina in modo sempre più intricato, nell’incedere del processo, si incontra con quello della farmacia, che dal 1902 ospita e cataloga piante e preparazioni galeniche che si sovrappongono e uniscono, in un altro livello di significato, al lavoro di Barchitta, palesando la parzialità e al tempo stesso l’impossibilità di una catalogazione totale, e quindi, il fallimento stesso della metodologia. Un uroboro, che come un vortice, ci riporta indietro, vincolandoci a navigare nel processo.

1 Italo Calvino, Lo sguardo dell’archeologo in Una pietra sopra, Mondadori, 2017

2 Gilles Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, 2016

Testo di Letizia Mari

alessio barchitta_panacea_13

terracotta bianca, smalto verde, piante essiccate

dimensioni ambientali
2023